Dal romanzo “Neuromante”, di William Gibson, fino a “Matrix” passando per il più recente “Avatar” le interfacce cervello-macchina (o BMI dall'inglese Brain Machine Interface) sono sempre state molto popolari nella fantascienza. Le interfacce cervello-macchina disponibili oggi sono, però, ancora molto distanti dal raggiungere i livelli a cui ci hanno abituato scrittori e registi. Ciò che rende così difficile realizzare neurointerfacce à la Matrix che permettano di “editare” una mente, ad esempio “impiantando” un ricordo o imparando istantaneamente una nuova abilità, è che il nostro cervello funziona in modo molto diverso da una tipica “macchina di von Neumann” (quali sono, ad esempio, i nostri personal computer). Se in questo primo tipo di elaboratori di informazione hardware e software sono qualcosa di chiaramente distinto e indipendente, nel tipo di "elaboratori" che sono racchiusi nella nostra scatola cranica questa distinzione perde significato.
Come abbiamo già detto in numerosi altri post, le neuroscienze ci mostrano che i nostri contenuti mentali sono completamente riconducibili alla struttura fisica del nostro cervello. Per dirla con la già più volte citata metafora di Sebastian Seung: “i pensieri e la coscienza soggettiva (come schemi di attività neurale) stanno al connettoma (la struttura fisica del nostro cervello) come l'acqua di un ruscello di montagna sta al suo letto di pietre”. Nei cervelli biologici, infatti, l’informazione “fluisce” attraverso il cervello e la computazione avviene naturalmente a causa delle particolari proprietà fisiche e geometriche dei percorsi neurali. E’ per questo motivo che sarebbe necessario “ricablare” completamente un cervello per apportare modifiche permanenti alla memoria, personalità, ecc… di un individuo. Una simile procedura, al momento, va decisamente oltre i limiti della nostra tecnologia. Tuttavia, grazie ai recenti sviluppi dell’optogenetica (di cui abbiamo già parlato in questo post), si può già cominciare a pensare alla possibilità di realizzare “coprocessori neurali” che, anche senza riconfigurare fisicamente le connessioni del cervello, potrebbero ottenere risultati analoghi attivando “forzatamente” i neuroni giusti per indurre artificialmente i più diversi stati o contenuti mentali.
Se neurointerfacce del tipo appena descritto sono ancora lontane dall’essere sviluppate, rapidi progressi si stanno facendo verso la realizzazione di neurointerfacce di un altro tipo. Neurointerfacce per “controllare con la mente” protesi o altri dispositivi robotici. Sempre più spesso queste interfacce cervello-macchina stanno anche diventando bidirezionali, cioè in grado di inviare feedback sensoriali all’utilizzatore; un fattore molto importate, questo, per permettere, ad esempio, il controllo accurato di un arto protesico (di questo abbiamo già parlato in questo articolo). Gli sviluppi di questo secondo tipo di tecnologie rappresentano una grande promessa per chi è affetto da paralisi o per i portatori di handicap motori: queste persone infatti sarebbero le prime a poterne beneficiare, aumentando la propria indipendenza e migliorando la propria qualità di vita.
E’ proprio in quest’ultima linea di ricerca che si inserisce il progetto di cui vi voglio parlare oggi: SICODE (qui il sito ufficiale). Il progetto, portato avanti da un consorzio di istituti di ricerca europei con il cooordinamento dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, si pone l'obbiettivo di perfezionare l'ingegneria delle neurointerfacce approfondendo la comprensione del funzionamento del cervello durante il movimento del corpo. SICODE vedrà l'Italia ricoprire un ruolo di primissimo piano, con la partecipazione dell'IIT, la cui attività sarà coordinata dal dottor Stefano Panzeri del "Center for Neuroscience and Cognitive Systems" di Trento, e con quella della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA). Del consorzio fanno parte anche altri due istituti di grandissimo rilievo internazionale nel campo delle neuroscienze come il Max Planck Institute for Biological Cybernetics di Tubinga e l'Università di Zurigo. Fino ad oggi - spiega il professor Panzeri - veniva presa in considerazione solo la connessione tra i neuroni deputati al movimento e l'oggetto esterno, quale un arto artificiale, senza tenere conto delle variabili di stato che influenzano i processi cerebrali, come gli stati di allerta, attenzione e motivazione. Il cervello è un sistema altamente complesso e solo prendendolo in considerazione nel suo insieme è possibile realizzare delle interfacce in grado di interpretare correttamente tutte le sfumature dei segnali ricevuti, dando così alle protesi a cui sono connesse la capacità di eseguire esattamente i movimenti desiderati.
Il progetto, come è ormai consuetudine nella ricerca neuroscientifica più d'avanguardia, vedrà la partecipazione di un team interdisciplinare, che includerà neuroscienziati, fisici, matematici e ingegneri.
La ricerca – spiega il prof. Vincent Torre della SISSA - si dividerà in due fasi, diverse ma complementari. Innanzitutto cercheremo di comprendere quale sia l'attività elettrica del sistema nervoso in assenza di stimolazioni, ovvero studieremo quale sia la sua attività spontanea che da un punto di vista informatico rappresenta il rumore del sistema. La seconda fase del progetto consiste nella progettazione e realizzazione di interfacce cervello-macchina di nuova generazione capaci di "leggere" correttamente l'attività elettrica del cervello nella prospettiva di poter contribuire a ridare una reale autonomia di movimento a chi è affetto da gravi handicap motori.
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